5/6/2023

Uguaglianza e inclusione al centro dell’evento E&I talks di P&G

Il 12 aprile 2023 si è tenuto in P&G un evento dedicato a Equality & Inclusion, “E&I Talks” che, attraverso 5 pillar e altrettante narrazioni, ha lo scopo di cercare proattivamente di ispirare e, al tempo stesso, aggiornare le conoscenze in materia di uguaglianza e inclusione.

Obiettivi che sono, poi, quelli propri della cultura di E&I che P&G ha adottato. Una cultura nata appena 5 anni fa, nel 2017, con una sola risorsa dedicata e che ha portato oggi l’azienda ad avere 10 persone che lavorano in quest’ambito.

Questo evento è stato sponsorizzato da uno dei brand di P&G, Head & Shoulders, che si sta impegnando su diversi fronti nella lotta alle discriminazioni; il 21 aprile, infatti, si è tenuto anche l’evento che rientra in Spalla a spalla, la campagna a favore della lotta al bullismo realizzata insieme a Fare X Bene.

Un’immagine della sala durante l’evento E&I Talks di Procter & Gamble.

Uguaglianza e inclusione in P&G

3 semplici parole sono al centro dello speech di Luca Merlo che mira a raccontare la cultura E&I in Procter & Gamble e le radici di questo evento. Le tre parole sono:

  • P&G
  • Inclusione
  • Società

P&G vuole essere infatti una società diversa e inclusiva. Con diversa si intende che vuole abbracciare le differenze presenti nella società ed essere in grado di rispecchiarle al suo interno. Ma significa anche che i dipendenti P&G devono avere massima libertà di espressione; anche perché la libertà di essere sé stessi in azienda impatta positivamente sia sul benessere dei dipendenti, sia sulla produttività, sia sui consumatori, sia, in definitiva, sulla società. Per questo P&G sta portando avanti numerosi progetti e iniziative di E&I, sia internamente sia esternamente.

Essere inclusivi, invece, tocca tutti: ad ogni persona che lavora in P&G è chiesto di essere aperta alle diversità in azienda e, per chi lo desidera, questa apertura e inclusività è un’evoluzione che può essere portata al di fuori dell’azienda, nella società. Essere inclusivi vuol dire guardare agli altri sotto un punto di vista nuovo, sentirsi parte di una società diversa e trasformare tutte le diversità in punti di forza. L’inclusione diventa forza creatrice di nuovi spunti.

Il lavoro che viene fatto da P&G su E&I ha un riflesso positivo sulla società: in una realtà che è sempre più attenta alla componente sociale, è importante per i consumatori che i marchi e le aziende prendono posizione, non solo in maniera astratta, ma in modo concreto. E Procter & Gamble, insieme ai suoi brand, lo fa con innovazioni di prodotto, eventi, progetti e partnership. Un caso esemplare è stata la collaborazione con Amazon volta a rendere il servizio di spesa online più accessibile per persone con disabilità visive.

L’obiettivo è anche quello di porsi come punto di riferimento e ispirazione per tutte quelle aziende medio-piccole che hanno una grande presa sul territorio, ma poche conoscenze degli aspetti globali.

I 5 pillar di E&I

Come la cultura di inclusione di P&G, anche l’evento di E&I si è basato su 5 aree tematiche: gender, people with disabilities, etnicity, LGBTQIA+ e generation.

Gender e linguaggio inclusivo

Claudia Manzi, psicologa sociale, e Alexa Pantanella, esperta di comunicazione e di promozione del linguaggio inclusivo, hanno sottolineato nel loro speach l’importanza del linguaggio nelle nostre vite e nella società.

La parola è un qualcosa che abbiamo da sempre e, proprio per questo, si porta dietro automatismi, retaggi e dissimmetrie, tra cui proprio quelle genere. Spesso non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma continuiamo a perpetrare e propagare questi automatismi. Un esempio è quando in un meeting di lavoro un uomo viene presentato come dottore o ingegnere mentre una donna viene presentata come signora o dottoressa, anziché con il titolo di studio.

La lingua, però, sta progressivamente cambiando ed evolvendo, anche grazie a una nuova consapevolezza e attenzione. Uno degli aspetti di questo cambiamento è legato alle identità non binarie e fluide; si stanno, infatti, cercando modi di adattare la lingua attraverso asterischi, schwa e altre soluzioni.

Claudia e Alexa hanno deciso di provare a oggettivizzare l’importanza del linguaggio andando a misurare l’impatto che ha sulle persone una forma di espressione che sia gender fair – cioè inclusiva. Si tratta del primo studio in Italia che permette di misurare questo impatto; altri studi sperimentali precedenti hanno dimostrato come i linguaggi più inclusivi corrispondano a un Equality Index più alto per il Paese o come usare declinazioni diverse per le professioni influisca fin dall’infanzia sulla propensione per le bambine e le donne a intraprendere una certa carriera. Si tratta però di esperimenti in laboratorio, mentre quello di Claudia e Alexa è stato sul campo.

Sono stati individuati 3 gruppi: in uno le persone sono state formate per utilizzare un linguaggio neutro, in uno per impiegare un linguaggio misto (maschile e femminile), e in uno per mantenere il maschile sovraesteso.

Si è poi valutato cosa succedeva a queste persone e come andava a cambiare il contesto in base al tipo di linguaggio adottato. Ne è risultato che nel gruppo che impiegava la doppia declinazione, con il passare del tempo, è aumentato il livello di identificazione dei dipendenti con l’azienda. Questo ha portato poi a un maggiore impegno nel lavoro, a un livello più elevato di benessere e a un maggior impegno civile a favore della parità di genere.

Nel gruppo in cui si è utilizzato un linguaggio neutro, invece, si è arrivati in maniera diretta a un maggior impegno civile a favore della parità di genere. È anche interessante notare che gli effetti sono stati registrati in egual misura, all’interno dei due gruppi, su soggetti di genere femminile e maschile.

Spesso l’idea di cambiare linguaggio, di decostruire le abitudini, genera resistenza, perché la questione della comunicazione viene percepita come irrilevante o secondaria, quando è in realtà alla base del processo di cambiamento.

Il grande ripensamento e le disabilità

Ludovica Di Luzio, dipendente P&G, ha parlato del suo grande ripensamento, legato a come interfacciarsi con la disabilità.

Spesso, siamo portati a pensare che la disabilità sia qualcosa di visibile, che si può notare a colpo d’occhio, che sia qualcosa che deve necessariamente mutare il modo in cui ci interfacciamo con gli individui che la hanno. La disabilità, in realtà, è spesso invisibile.

Il ripensamento è legato al modo di percepire le disabilità. Il termine stesso significa letteralmente non-abile, e chiunque può essere considerato non abile a fare qualcosa. Tendiamo a dare per scontato che la disabilità sia un qualcosa di nicchia, quando in realtà ci sono 166 milioni di persone disabili in Europa e 21 milioni in Italia, il 38% della popolazione.

Pensare che la disabilità sia un qualcosa di nicchia può portare a trattarla di conseguenza, a cercare sempre le parole giuste, le terminologie specifiche, a temere di dire la cosa sbagliata finendo per discriminare qualcuno. Il cambio di prospettiva sta nel realizzare che non bisogna creare un linguaggio ad hoc quando si interagisce con una persona con disabilità, ma che il nostro linguaggio e le nostre azioni quotidiane devono essere ripensate per non discriminare, ma anzi per includere e sostenere.

Ci sono diversi esempi di cose nate come sostegno a una disabilità che sono diventate di uso comune. Un esempio sono Siri e gli altri assistenti vocali, pensati per persone con disabilità visive e oggi utilizzate da chiunque. Oppure lo spazzolino elettrico, che è stato creato per coloro che hanno difficoltà a lavarsi i denti con uno spazzolino normale, ma che è oggi utile per la salute orale di un’ampissima fetta della popolazione.

Per Ludovica, il fatto che ha scatenato questo “grande ripensamento” è stato proprio vedere la campagna di sostenibilità sociale “The Big Rethink” di Oral B. Uno degli obiettivi del marchio è proprio quello di rendere l’igiene orale un’esperienza accessibile e positiva per tutti. È infatti dimostrato dalle ricerche che le persone con disabilità hanno una più alta incidenza di problemi gengivali sia a causa di una maggiore difficoltà nell’igiene orale quotidiana, sia per via della mancanza di professionisti qualificati per prendersi cura di persone con disabilità. Oral B si sta impegnando su entrambi i fronti: con innovazioni di prodotto e con la formazione dei professionisti dentali.

“È un percorso lungo, che richiede tempo e tanto apprendimento, ma che richiede soprattutto che tutti noi che ci lavoreremo abbiamo lo stesso ripensamento. Per fare in modo che l’accessibilità diventi davvero parte integrante e fondante di tutto quello che facciamo.”

Etnicity: gli stranieri di seconda generazione

Roberto Isibor è un avvocato abruzzese di origine nigeriana e dottorando alla Bocconi; in questo talk ha scelto di raccontare la sua storia.

Roberto è nato in un paesino dell’Abruzzo dove era l’unica persona nera; quando si è spostato a Bologna per studiare giurisprudenza pensava chje qui avrebbe trovato una città più multiculturale, ma in università era nuovamente l’unico ragazzo nero – fatta eccezione per un congolese che era lì per lo scambio. A Bologna ha realizzato per la prima volta di essere un italiano nero. Tutti i suoi compagni di corso erano scioccati del suo accento abruzzese, non riuscivano a concepire il fatto che fosse nero e al tempo stesso italiano.

Roberto si è sentito per la prima volta italiano a Londra, dove si è recato per conseguire un master: qui nessuno ha contestato che fosse nero e anche italiano, si è sentito semplicemente uno dei tanti. Quando si è trasferito a Milano, la città più multiculturale d’Italia, era convinto che sarebbe stato di nuovo uno dei tanti, ma nelle grandi firme di avvocati era comunque l’unico nero e spesso i colleghi si rivolgevano a lui in inglese convinti che non fosse italiano.

Roberto ha raccontato di aver sempre preso con ironia e leggerezza questi avvenimenti, convinto fosse stata una sua “sfortuna” imbattersi in queste situazioni. Solo dopo ha realizzato, anche attraverso la sua associazione, che a moltissime altre persone è capitato di sentirsi costantemente diverse e che non tutte l’hanno presa altrettanto bene. Che tanti non hanno scelto giurisprudenza perché era considerata una facoltà “per bianchi”.

“C’erano tanti intorno a me […] che subivano la mia stessa tassa. Questa è una tassa, una tassa sull’emozione. Una tassa che ti provoca un peso maggiore per essere quel che sei, per fare quel che vuoi fare. È come se volessi comprare il pane io e te, ma tu pagassi due euro e io cinque, perché? Perché io sono io. E molte persone questa tassa non la riescono a sopportare. Non fanno scelte, hanno paura di fare scelte. Se le fanno non si sentono a loro agio perché si sentono degli imbroglioni. E lì mi sono reso conto che bisognava fare qualcosa, aiutare a cambiare questa narrativa. E il primo passo è pensare che non avere questa tassa è il nostro piccolo grande privilegio.”

Ogni persona vive una tassa emotiva dettata da quello che è, dalle proprie peculiarità e ogni tassa è diversa per ciascuna persona. Il primo passo è rendersi conto del privilegio di non subire alcune tasse, è prendere consapevolezza di avere dei privilegi. Ad esempio, il privilegio di essere uomo, quello di essere bianchi e non neri e via dicendo.

Il contrario di razzismo non è neutralità, è essere alleati. Essere alleati vuol dire essere proattivi a cambiare la narrazione stereotipata. La società sta cambiando, ed è giusto che le persone nere e straniere di seconda generazione non si sentano straniere in casa propria. Essere alleati, dall’altro lato, significa anche ricevere alleanza.

LGBTQIA: orientamento sessuale e identità di genere

Massimo D’Aquino ha aperto il suo intervento rivendicando l’etichetta di uomo transessuale: ha spiegato che sceglie di usare la parola transessuale anziché transgender – più diffusa – perché ci ha messo tanti anni ad introiettare questo termine e oggi lo sente suo.

Massimo ha subito sottolineato una distinzione importante, che spesso a molte persone è ancora poco chiara, quella tra orientamento sessuale e identità di genere. Per capirla al meglio, spiega, basta individuare le due domande alle quali ciascuna da risposta:

  • Chi mi piace? La risposta sta nell’orientamento sessuale
  • Chi sento di essere? La risposta sta nell’identità di genere

Massimo è nato negli Anni ’60, biologicamente femmina, gemello eterozigote di un bambino morto dopo pochi giorni, Massimo, nome che proprio per questo ha scelto per sé. Fin da piccolo, ha realizzato di sentirsi fuori posto: in quegli anni le separazioni di genere erano ancora tanto forti, in chiesa, a scuola, nel vestire e proprio per questo era difficile per Massimo stare al suo posto e veniva spesso additato come “maschiaccio”.

Quando si è trasferito con la famiglia in un paesino accanto a Milano ha realizzato di essere oggetto di una doppia discriminazione: da un lato non riusciva ad essere accettato come maschio ed era costretto a “far la femmina”, dall’altro era “terrone”, in un periodo in cui la non tolleranza era forte e si leggevano sulle case cartelli con scritto “Non si affitta ai meridionali”.

Un giorno, dal barbiere, si è imbattuto in un articolo di giornale in cui si parlava di una donna trans: lì ha capito, per la prima volta, che voleva diventare un uomo. Ha iniziato così a farsi chiamare Massimo fuori casa e, quando nell’82 è stata emanata una legge che permetteva di intraprendere un percorso di transizione, ha scelto di prendere questa via.

Si è trovato davanti a non poche difficoltà nel quotidiano e nel percorso in sé, si è imbattuto in molte persone che non erano preparate adeguatamente – psicologi, avvocati, medici. La sua transizione è durata quasi 17 anni, diversamente dalle procedure attuali che durano, grazie ad associazioni e a maggior professionalità, circa 2 o 3 anni. Le difficoltà che ha incontrato, la ricostruzione del torace andata male e le problematiche sono i fattori che lo hanno spinto a fare attivismo per far sì che queste cose non succedano ad altre persone.

Generazioni e comunicazione mirata

A parlare di generazioni ed età è stato Diego Martone, CEO di Demia, società di consulenza per le ricerche di mercato.

Secondo uno studio, esistono al momento 7 generazioni così suddivise:

  • 1921 - 1927 Greatest
  • 1928 - 1945 Silent
  • 1946 - 1964 Boomers
  • 1965 - 1980 Gen X
  • 1981 - 1996 Gen Y o Millennials
  • 1997 - 2012 Gen Z
  • Dal 2012 in poi Alfa

Ma come viene definita una generazione? La definizione di una generazione viene fatta a posteriori sulla base di tutti quegli elementi fondanti che ne creano il DNA e che molto spesso riguardano eventi culturali e di contesto. Alcuni esempi di eventi storici che hanno influenzato le generazioni in maniera diversa sono il Crollo di Wall Street, la Bomba Atomica, l’omicidio JF Kennedy, lo sbarco del primo uomo sulla Luna, il rapimento Moro, la caduta del Muro di Berlino, l’attentato alle Torri Gemelle, la presidenza di Obama, l’incidente della Costa Concordia o il Covid-19. Ma non si tratta solo di eventi, cambia anche il mezzo di comunicazione di riferimento: radio, televisione, internet.

Questo implica una concezione e degli atteggiamenti diversi nei confronti degli accadimenti. Ad oggi, è molto attuale il presentismo, cioè l’eccessiva concentrazione sul “qui ed ora”, una scarsa capacità di proiettarsi verso il futuro. Questo approccio è nato tra i Millennials, ma si sta diffondendo. Prima si pensava alla vita come un unico ciclo, ora le incognite percepite sono aumentate e gli eventi rilevanti per l’esistenza di un singolo – come l’uscita da casa dei genitori, il matrimonio, i figli – si stanno spostando gradualmente più avanti nella linea della vita e stanno diventando sempre più reversibili e meno definitivi.

Questo ha effetto in tutti gli ambiti, incluso quello del lavoro. Cambia, infatti, l’approccio al lavoro: un tempo era un obbligo, per poi abbracciare la filosofia del vivo per lavorare e dopo del lavoro per vivere, fino a diventare un esperimento, un “vediamo come va”.

Cambiando la percezione, cambia anche il linguaggio: l’utilizzo di linguaggi che per una generazione sono chiari e semplici, non sempre lo sono per un’altra.

“L’interazione tra generazioni, trovando i linguaggi giusti, non è una somma [...] ma potrebbe essere molto di più, se troviamo i terreni per riconoscere quello che è l’altro e farci riconoscere e, soprattutto, per sviluppare le interazioni, le relazioni, far dialogare le generazioni.”

In Italia il numero di persone giovani è in calo per via del minor numero di nascite, ma la vita media si sta allungando. L’età media passerà dal 2020 al 2050 da 44 a 49, nel 2050 ci sarà il 33% in più di persone che hanno 65 anni e il 7,3% in più di persone con più di 85 anni.

Le generazioni continueranno a esistere ma si stanno aprendo nuovi mercati: la svolta è pensare prodotti e servizi non solo per età – per “anziani”—, ma per generazione ed esigenze.